
Due anni dopo la pubblicazione della teoria dell’aspettativa-valore Fishbein e Ajzen produssero la “teoria dell’azione ragionata”. Gli studiosi, partendo dal presupposto che definire l’esistenza o meno di una relazione diretta tra atteggiamento e comportamento sia una aspirazione troppo ampia, conducono un’analisi che si propone essenzialmente di capire quando e perché in determinate occasioni questa relazione esista effettivamente.
Il focus viene posto quindi sul fattore di intenzionalità del soggetto verso un’azione che vuole compiere. L’atteggiamento di cui si parlava quindi nella precedente teoria non viene considerato nei confronti di un oggetto, bensì dell’azione che riguarda quel determinato oggetto. Ovvero, di fronte all’opportunità di seguire un corso di cucina, ciò che viene preso in considerazione dagli studiosi non è l’opinione che il soggetto possiede nei confronti dei corsi di cucina in genere, ma sulla sua intenzione di seguirne uno in particolare. E’ la volontà di compiere una determinata azione che, alla fine, produce o meno il comportamento di una persona. Già qui notiamo il forte carattere razionalistico che gli studiosi mantengono anche in questa seconda impostazione del problema.
In secondo luogo, analizzando il concetto di intenzione, gli studiosi la riconducono alla somma di due caratteri presenti nella mente dell’individuo e che producono degli “stimoli”, e che sono l’atteggiamento verso il comportamento in sé, e le norme soggettive che il soggetto ha incamerato nel corso della sua vita.
L’atteggiamento verso il comportamento è dato, semplicemente, dall’impianto teorico della teoria dell’aspettativa-valore, in cui i fattori determinanti nella costruzione di questo elemento sono le aspettative per l’esito del comportamento in questione e il valore attribuito all’azione in sé.
Le norme soggettive, invece, comprendono quell’insieme di credenze che l’individuo sente addosso nel figurarsi ciò che gli altri (familiari, amici o semplicemente il “pubblico”) prenserebbero di lui e della sua azione. Anche se, ipoteticamente, quel “pubblico” non nutrisse gli stessi giudizi che il soggetto in questione si prefigura, ciò sarebbe irrilevante, poiché è la percezione che l’individuo sente su di sé ad essere determinante. Uno studente potrebbe sentire, qualora si accingesse a prendere un pessimo voto all’esame, il peso di un cattivo giudizio dei genitori anche nella circostanza in cui gli stessi non proverebbero affatto disapprovazione per la brutta rendita.
Purtroppo, anche in questo caso, la teoria fu oggetto di numerose critiche dal momento che manteneva quello stesso approccio razionalistico e aridamente logico che escludeva dall’analisi i comportamenti assunti, per esempio, da coloro che potremmo definire, sinteticamente, gli “emarginati”. Nonostante lo stigma sociale costruito e confermato quotidianamente verso soggettività come gli accattoni, i tossicodipendenti, le prostitute e via dicendo, questi non smetteranno di mettere in pratica gli stessi atteggiamenti che, secondo le norme sociali, sono mal visti.
Finalmente, con la terza elaborazione di questo problema, Ajzen riuscirà a comprendere entro il suo modello una varietà ben maggiore di comportamenti, proprio perché si distaccherà da un’analisi prettamente razionalistica ed utilitaristica dei comportamenti, sebbene l’approccio rimarrà pur sempre quello di schematizzare una infinita pluralità di casi.