
Dagli anni Cinquanta, ancor prima delle elaborazioni di Fishbein ed Ajzen, si affacciano sul panorama della psicologia sociale i primi studi relativi alle dinamiche di cambiamento riguardanti gli atteggiamenti e i comportamenti. In particolare, si tratta di mini-teorie che trattano il fenomeno con un approccio cognitivista, ovvero analizzano la concordanza tra atteggiamenti e comportamenti e il modo in cui viene attribuita coerenza all’insieme della realtà percepita nel momento in cui si presenta una situazione di incoerenza tra ciò di cui si è convinti internamente e ciò che appare nella realtà esterna.
Una prima teoria viene presentata nel 1946 ad opera di Fritz Heider, la “teoria dell’equilibrio cognitivo”.
Ciò che lo psicologo statunitense afferma consiste nel fatto che l’individuo, nell’elaborare le informazioni che provengono dall’esterno e dando loro una “giustificazione” interna, un senso che collega i vari elementi della realtà, cercherà il più possibile di mantenere una situazione di coerenza e di consonanza tra ciò che percepisce e ciò che sente internamente, tra ciò che dice e ciò che fa.
Ciò avviene poiché esistono due stati d’animo che mettono in relazione l’individuo con i propri schemi mentali della realtà e la realtà stessa. Qualora si presenti una situazione di incoerenza, di giustificazione mancata tra qualcosa che avviene nell’ambiente esterno e ciò che l’individuo spiega a livello interno ci si trova nella situazione di dissonanza, di “arousal”: una condizione di disagio che spingerà l’individuo a risolvere la sensazione di incoerenza interna. Questo procedimento si porrà come fine lo stadio di coerenza, in cui invece le credenze interne e i fenomeni esterni saranno legati da una spiegazione e da una certezza non minata da punti deboli.
Heider afferma, soprattutto, che questa necessità di ricercare un ragionamento logico dietro le proprie convinzioni ed i propri modi di vivere sia indispensabile per mantenere una propria immagine di sé che fornisce autostima all’individuo. Chi di noi si sentirebbe a proprio agio nel fare qualcosa che, normalmente, non desideriamo fare ma che anzi evitiamo intenzionalmente?
Se, per esempio, non ci piacesse la cucina sudamericana, soprattutto quella messicana, e ci ritrovassimo ad andare a cena con una persona al più rinomato ristorante messicano della zona sentiremmo il bisogno, anche inconsapevolmente, di giustificare a noi stessi questo comportamento. Perciò, continuando sulla scia di questo esempio, potremmo trovare diversi tipi di processi attraverso cui motivarci il nostro stesso comportamento:
- ignorare il fatto che, da anni, abbiamo sempre denigrato la cucina messicana e far finta di niente poiché il fatto di uscire con quella certa persona ha per noi un’importanza ben più grande;
- potremmo rinunciare ad uscire con quella ragazza o quel ragazzo con cui vogliamo uscire da tempo, confermando il disprezzo per la gastronomia latina;
- rinunciare al pregiudizio verso la cucina messicana e annullare il risentimento che abbiamo confermato fino ad allora.
Le soluzioni potranno essere le più disparate e indirizzate verso un elemento o l’altro nell’ambiente esterno, ma mireranno sempre a raggiungere quello stato di consonanza tra ciò che dentro di noi riteniamo vero e ciò che facciamo e viviamo nella realtà. La teoria dell’equilibrio cognitivo di Heider sarà la base per successive proposte scientifiche come la “teoria della dissonanza cognitiva” presentata da Leon Festinger undici anni dopo, nel 1957, e di cui parleremo nel prossimo articolo.