
Piattaforma editoriale per produrre senso
È ora di finirla di cercare consenso, occorre produrre senso. Da questo concetto che può sembrare uno slogan o un pay-off e invece non lo è, partiamo per illustrare un cambiamento, avvenuto e per certi versi ancora in atto, nel modo di fare branding personale o aziendale. In quest’ottica vendere la nostra reputazione o un prodotto o un servzio cambia poco. Costruire senso significa fare dell’impresa un brand vero e proprio, fare in modo che il brand non solo ci rappresenti ma racconti qualcosa che abbia senso per i nostri consumatori. Se la pubblicità tradizionale intercetta invasivamente i clienti e in definitiva richiede tautologicamente un consenso, le piattaforme editoriali si pongono come intermediarie tra l’inserzionista e il fruitore del prodotto o servizio. Si occupano cioè della distribuzione del contenuto editoriale. Perché si sa, la benzina della web è il contenuto, quale che sia la sua forma, ma occorre una strada o una rete di strade per distribuirlo capillarmente.
Il re della piattaforma editoriale
Si ripete spesso che il contenuto è il re e la distribuzione è la regina. Le aziende hanno necessità di produttori di contenuti di valore per far conoscere e invitare all’acquisto del prodotto o servizio che offrono. Così, le aziende stesse possono diventare editori. I contenuti editoriali pagati dalle aziende rinforzano la programmazione delle emittenti tradizionali. Dialogano con i consumatori che a loro volta sentono di appartenere a un brand e ne riconoscono il valore aggiunto. Grazie alle piattaforme editoriali l’esperienza tra produttori di content, consumatori ed editoria diventa interattiva. Ed è un fatto che questi contenuti interattivi, ammesso che siano di qualità, hanno il pregio di accrescere la fidelizzazione del cliente. Una piattaforma editoriale ha la possibilità di scambiare informazioni, produrre contenuti di diverso tipo e aggiornarli costantemente.
Quali contenuti sulla piattaforma editoriale
Grazie al native advertising è possibile pubblicare contenuti pubblicitari sulla piattaforma editoriale che voglia intercettare il target di riferimento. Il native advertising non ha nulla a che vedere con il guest blogging in quanto è un’attività di marketing che si integra il più possibile alla linea editoriale di chi accoglie il brand in questione. Dunque, è un’attività di content marketing per nulla invasiva. L’autore dialoga con un cliente-lettore già in qualche modo interessato al prodotto o al servizio, già targetizzato. E lo fa in un modo che non infastidisce, il che significa che fa dimenticare al lettore-fruitore che è un contenuto frutto di una precisa scelta editoriale interna. Invero il content può esprimersi in svariate forme, alcune di forte impatto: è il caso dei video. Anzi, il branded content è più efficace quanto più è completo e diversificato. Una strategia di branding che si dica incisiva deve dispensare qualcosa di utile all’utente. Detto in altri termini, deve creare senso anziché semplicmente gridare e ribadire il nome del marchio.
Possibile scenario
Il native advertising è la naturale evoluzione del contenuto publidirezionale che si basa sull’acquisizione di uno spazio pubblicitario a opera del marchio. La differenza è che non si tratta più di un semplice inserto di marketing, ma di un contenuto inserito senza forzature e organicamente all’interno della piattaforma editoriale che lo ospita. A partire dai primi mesi del 2018 Google penalizzerà le pubblicità invadenti, cioè quelle di forma tradizionale (pop up, video automatici, eccetera). In quest’ottica si preannuncia una fioritura dei contenuti non fastidiosi, quelli cioè che si integrano con il contesto e assecondano la linea editoriale della piattaforma. Nessuna interruzione contenutistica, nessuna persuasione ripetita e invasiva: non si ricercherà consenso ma solo senso. Detto altrimenti, l’interazione sarà pull e non push, favorirà sempre più la condivisione partecipativa e avrà la possibilità di narrativizzare qualsiasi strumento di comunicazione aziendale.