Il Canovaccio Inquadrare la realta tra immagini e fotografia, Loomen Studio, Roma

Viviamo in una società che ci invia continuamente immagini, impulsi visivi di ogni genere e specie, immagini patinate contrapposte a scorci crudi di quello che sta succedendo nei paesi in guerra, modelle bellissime e perfette e piatti colorati e buonissimi.

Siamo tutti quanti chiamati a guardare quest’abbondanza di immagini, ma cosa significa porsi davanti ad una fotografia in maniera critica? Significa credere che questa riporti fedelmente la realtà o piuttosto non credere a quello che ci viene fatto vedere in quanto tutto modificato e adattato per renderlo più fruibile e accattivante?

Nel 2015 Paul Hansen, il vincitore del primo premio del World Press Photo, venne accusato di aver reso una fotografia del funerale di alcuni bambini uccisi durante dei bombardamenti israleniani troppo estetizzante, in contrapposizione al tema della foto, ferocemente crudele e cattivo. E noi, riconoscendo al mezzo fotografico una attendibilità descrittiva, ci possiamo fidare totalmente di quello che ci propone o dobbiamo sempre mettere tutto in discussione? Le potenzialità di questo strumento di manipolare verosimilmente la realtà sono infinite, non intendendo obbligatoriamente l’utilizzo del fotomontaggio o di lavorazioni pesanti con photoshop ma proprio per l’ambiguità del mezzo in sé, in quanto l’osservatore non saprà mai con certezza se quello che l’autore ha rappresentato è qualcosa di reale o qualcosa di artificiale. In secondo luogo perché, riguardo la fotografia di reportage e di documentazione in generale, il fotografo stesso nel momento dello scatto deve operare delle scelte che ne decideranno soggettivamente il significato in virtù del fatto che deve prendere decisioni immediate e d’istinto, ad esempio che punto di vista adottare e cosa mettere e cose escludere dal fotogramma che è, per ovvie ragioni, limitato ad una porzione di spazio.

La fotografia vive costantemente questo dilemma di “vero o falso” perché, per definizione, rappresenta la realtà che, chimicamente o digitalmente, viene riprodotta sulla pellicola o sul sensore. Ma quali sono queste informazioni? Sta proprio qui il punto chiave dell’intera polemica e di tutti quanti i discorsi su questo tema: cosa è la realtà?

Tanti fotografi hanno lavorato proprio su questo, sul mettere in discussione il linguaggio e la veridicità della fotografia come documento. Esistono lavori fotografici che ci danno la perfetta sensazione di stare guardando il vero, un momento della vita di qualcuno di cui il fotografo ha sapientemente rubato un attimo. In realtà ci troviamo di fronte ad un set, in cui ogni minima cosa è stata studiata alla perfezione (Gregory Crewdson). Oppure, consapevole della dualità del mezzo fotografico, altri artisti hanno giocato e ci hanno sfidato dicendoci chiaramente che quello che stiamo guardando è successo veramente, ma solo in parte. Il lavoro di Cristina De Middel in questo senso è illuminante. In Afronauts parte da un fatto realmente accaduto per costruire una sua storia, un suo set fotografico che, unito a documenti reali, ci invita non tanto a domandarci se quello che stiamo vedendo sia reale o meno, quanto a mettere in primo piano il nostro sguardo e la nostra capacità di godere delle sue immagini delicate e sognanti. Di questo lavoro fanno parte ritratti, passeggiate di astronauti in lande più o meno riconoscibili, documenti e foto di alieni. Cosa è vero e cosa invece è falso? Credo la domanda più interessante da porsi non sia quindi se la fotografia sia o meno la rappresentazione della realtà quanto piuttosto se la realtà stessa sia davvero un concetto univoco.

La fotografia non è mai stata, e mai sarà, riproduzione del reale, perché il reale inteso in senso universale non esiste. Esistono tante realtà quante sono gli occhi che le osservano.