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Guy Bourdin. Uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi.

Parigino, il neonato Guy Louis Banarès fu abbandonato dalla madre e adottato dalla famiglia Bourdin che gli diede il nome. Questo avvenne nel 1928. Apprese i primi rudimenti della fotografia quando, verso la fine degli anni Quaranta del secolo scorso militava nella French Air Force a Dakar. Nel ’50, tornando a Parigi, conobbe Man Ray che lo prese sotto la sua protezione. Dopo una prima mostra di suoi dipinti, nel ’53 Bourdin vide la sua prima mostra fotografica e due anni più tardi Vogue Paris pubblicò i suoi primi servizi di moda; collaborazione, questa, che durò fino quasi alla fine degli anni Ottanta.

Fu proprio grazie a Vogue che conobbe lo stilista Charles Jourdan per il quale si occupò di tutte le sue campagne promozionali in maniera ininterrotta dal ’67 all’81.

Vincitore nel 1985 del Grand Prix National de la Photographie (premio che egli rifiutò) lavorò per grandi magazine come Vogue e Harper’s Bazaar e Brand della moda come Versace, Chanel, Loewe, Ungaro, Miyake, Bloomingdale’s e altri.

La tecnica 

I suoi lavori possono definirsi come delle antropomorfe composizioni che rasentavano la stilizzazione e la provocazione (elemento questo, condiviso con un altro maestro dell’immagine come Helmut Newton) senza rinunciare alla narrativa che doveva caratterizzare il suo lavoro. Questo innovativo modo di concepire le cose fu capace di demolire le tradizionali aspettative mettendone in dubbio l’efficacia dei messaggi trasmessi, edificando uno stile nuovo per quanto riguarda il settore della moda.

Nello specifico Bourdin non si limitava a ritrarre il soggetto ma amava creare una scenografia atta a determinare una storia complessa dove non mancavano elementi surreali, provocanti, sensuali che si coniugavano con quanto era l’elemento portante dell’immagine.

In questo suo modo di vivere la foto si trovano le influenze non solo di Man Ray al quale doveva molto ma anche di celebri pittori surrealisti come Balthus e Magritte e di Luis Buñuel. 

Fu una vera e propria rivoluzione del messaggio pubblicitario che si staccava pesantemente dai canoni classici, per sconvolgere chi ne veniva in contatto. Un esempio mirabile è una celebre foto dove una modella di alta moda posa sotto a delle teste di vacche macellate. Bourdin trasformò la bellezza della fisicità in una sua grottesca parodia in cui evidenti erano gli aspetti surreali. 

Pillole di Guy

Bourdin non amava auto incensarsi e non voleva editare libri contenenti i suoi lavori, cosa che fece il figlio alla sua morte pubblicando l’interessante Exhibit A. Molte le retrospettive che hanno permesso di valorizzare il genio di Guy Bourdin come quella tenutasi nel 2003 al Victoria & Albert Museum a Londra e poi esportata a Melbourne al National Gallery of Victoria e successivamente al Jeu de Paume a Parigi.

In vita, Bourdin aveva un ricordo quasi blasfemo della madre che rivedeva con capelli rossi e con pelle bianca. Anche se l’artista non perdonò mai di averlo abbandonato, inconsciamente si portò visceralmente addosso quella diafana figura che ripropose in tante modelle dai capelli rossi utilizzate all’interno di scenografie che vedevano tristi camere di albergo o soggetti di situazioni violente. Fu quella una vera e proprio ossessione per quel bambino oramai cresciuto che non aveva dimenticato quella triste vicenda personale e che fu foriera di quell’inconfondibile stile quasi onirico tra genio e follia. 

I suoi lavori sono esposti al MoMA di NYC, al Getty Museum di Los Angeles e il SFMOMA di San Francisco tra gli altri.